Sappiamo che la ricchezza dei vini bianchi campani è in grado di venire incontro a qualsiasi esigenza di stile oltre che gastronomica, potendo esserci in ogni locale che si rispetti una vera e propria completa carta dei vini bianchi campani, ma altrettanto sappiamo che non sempre si riesce ad avere bianchi che possano invecchiare per un bel po’ di anni, ne sono capaci i grandi Fiano di Avellino docg, ma per molti altri vignaioli in regione diventa spesso un azzardo o un esperimento che può tramutarsi in perdita economica.
Per carità, forse i nostri vini bianchi non avranno la struttura di un Vovray o di un riesling alsaziano, ma tanto possono dare, soprattutto scavando in quell’immenso giacimento del vigneto Campania, tra vitigni riscoperti e salvati dall’oblio, spesso grazie all’ iniziativa di singoli imprenditori e al lavoro di enologi competenti, guidati spesso solo da ricerche ampelografi che dell’800 come quelle di Giuseppe Frojo.
E’ il caso delle vicende del Coda di Pecora, tra il Monte Maggiore e il lato sud della caldera del vulcano di Roccamonfina, valorizzato da Il Verro di Formicola, azienda ormai affermata nel panorama del Pallagrello e del Casavecchia, condotta da Cesare Avenia, già manager di multinazionali ICT ed ora anche impegnato oltre che nella guida del Consorzio Vitica, anche nella rete dell’Alleanza Italiana Sviluppo Sostenibile dove si occupa di infrastrutture resilienti.
L’ing. Avenia ci ha dato il privilegio di assistere alla verticale del Coda di Pecora, dal 2011 al 2018, dove abbiamo potuto anche fare la conoscenza del suo insostituibile staff familiare ed aziendale, e approfondire il lavoro del suo enologo, Vincenzo Mercurio, la cui vinificazione per sottrazione, sobrietà enoica nel rispetto della naturalità, è pienamente sposata da Avenia.
Il Coda di Pecora, allevato a spalliera, ha una maturazione più lenta del Casavecchia e del Pallagrello presenti in vigna, con un grappolo che conferisce il nome a causa della sua appendice lunga, da sembrare una coda, che ne fa un tratto distintivo e distinguibile camminando per i vigneti.
Il Verro ci accoglie stavolta purtroppo in un diluvio tropicale che ha impedito di vivere appieno il vigneto circostante circondato dal verde rigoglioso dei monti Trebulani, ci si è tuffati quindi nel panel degustativo con il supporto anche di Pietro Iadicicco delegato Ais di Caserta.
Di certo di gran livello questa riscoperta unica della famiglia Avenia, che ha continuato l’opera anche quando, anni fa, i suoi amici compagni di viaggio si sono fermati, ma mai sono stati dimenticati, non solo nella filosofia: utilizzare il terreno meglio di come l’abbiamo trovato e restituire qualcosa alla Terra di Lavoro che ci ha dato i natali dopo una vita professionale in giro per il mondo: con questo intento si è creato anche il ricordo di Cesare Nacca, cui è intitolata la vigna di Pallagrello, con Avenia e Nacca iniziarono all’alba degli anni 2000 anche il dott.Mingione, Angelo Cavagnuolo e il prof. Antonio Barca, che inizò la ricerca “nominalistica per l’etichetta; nell’ archivio di Avenia c’è ancora la sua proposta latinistica per il nuovo autoctono, “Ovicauda” ed ora, invece, il coda di pecora si propone ai mercati in 2500 bottiglie al costo di 18€ con il nome di Sheep, inglesismo per appassionati internazionali benedetto anche dal recente Merano Wine Festival.
In tutte le annate, dal 2011 al 2018 si avvertono i caratteri delle annate diverse, ma con il filo comune che si dipana nelle evoluzioni di solito caratterizzanti i grandi bianchi altoatesini o anche delle zone del Riesling renano dell’Alsazia.
Il coda di pecora colpisce per la spiccata mineralità che ne esalta l’importante nota acida, donando freschezza ed eleganza immutate anche nelle annate 2014 e 2015, con un colore che muta progressivamente fino al 2011 da paglierino a dorato, con una minore esplosione di componenti olfattive nelle annate più vecchie, rispetto allo strepitoso 2018 si perdono a volte quelle note gentili di menta, ma l’invecchiamento in vetro porta a maturazione tutto il ricco bouquet di fruttato, tra pesca ed agrumi.
Andando più indietro nel tempo la cultura libresca del vino potrebbe farci attendere delusioni da bianchi invecchiati solo in acciaio e in bottiglia ed invece è proprio del 2011, la prima annata, la sorpresa della verticale; felicemente secco, burroso, con percezioni di idrocarburi stimolanti, un 2011 che ci riporta alla memoria di un evento proprio di quell’ anno, a cura di Slow Food nella Banca del vino di Pollenzo; si parlava in una degustazione di 10 bianchi italiani e della necessità di incoraggiare invecchiamenti dei bianchi adatti; tra i 10 italiani c’era il Fiano 2004 di Ciro Picariello, anche da li partì una consacrazione per il grande bianco irpino.
Qui a Formicola c’è la consapevolezza, da trasferire anche agli altri produttori di Terra di Lavoro e della Campania, che pure in queste zone è possibile cimentarsi nei bianchi invecchiati con coraggio ed innovazione.
Comunque sarebbe non professionale evitare di consigliare di affrettarsi a prendere subito il 2018, magari per qualche bottiglia serrarla in cantina e conservarla per bene, il tempo saprà regalare buone cose, infine una domanda a Cesare Avenia:. ma questo grande Sheep, quanto renderebbe di più se fosse messo, in edizione limitata, in una magnum da 150 cl come i grandi di Cantina Terlano o San Michele Appiano?
Carlo Scatozza
[…] Fonte: http://www.campaniaslow.it […]