Nessuna cucina regionale può vantare albe più illustri e maggiore varietà di preparazioni. Una delle principali cause, forse non tanto felice, è che la città ed il suo territorio sono, storicamente, sempre stati oggetto di conquista e contaminazione di usi e costumi. Ciò ha consentito di sviluppare una gastronomia piena zeppa d’influenze, che si riscontrano tuttora. I primi influssi provengono dai vari popoli dai Fenici, Greci, Arabi, che hanno invaso le zone costiere del sud, spesso fondando città. Alcuni piatti hanno mantenuto perfino nel nome le loro origini. Ancora maggiore la certezza quando si va nella documentazione scritta,come è descritto nell’influenza della cucina romana. Apicio, nel suo “De re coquinaria” ci descrive compiutamente piatti come il migliaccio, le frittate, le polpette, la scapece, la lasagna, la minestra maritata, il cui richiamo a preparazioni odierne è continuo. La dominazione angioinafa incontrare Napoli con il mondo francese, probabilmente, le analogie della nostra gastronomia con quella provenzale (ricette di carciofi, cipolle, erbe, parmigiana di melanzane, la “daube de boeuf”, il “tian” di maccheroni al forno), mentre l’influenza francese e spagnola ha consentito integrazioni e scambi che rendono assai simili le rispettive gastronomie. Dopo Apicio e Boccaccio, che scrive di maccheroni e ravioli, le prime indicazioni provengono, a fine 1500, dal “Ritratto o modello delle grandezze, delitie e meraviglie della nobilissima città di Napoli” del Marchese Giovan Battista del Tufo, che ci porta a conoscenza del pignato grasso (minestra maritata), del migliaccio, braciole, casatielli, pastiere e vari piatti,che cuciniamo tutt’ora. E proprio sulla pasta si compie la rivoluzione tra fine ‘600 e ‘700 con il passaggio dei napoletani da mangiafoglia (che derivava ai napoletani dalla dieta alimentare prevalente, prima della comparsa massiccia dei maccheroni sulla tavola napoletana) a Mangiamaccheroni . Come fenomeno di massa la pasta entra prepotentemente nella dieta per esigenze logistiche di approvvigionamento della città, per combattere la fame che le sole derrate agricole tradizionali non riuscivano più a fare in una città divenuta ormai popolatissima, pur se una tradizione,non massificata e non quotidiana di paste secche era stata comunque presente anche prima.. Negli anni ’50 del ‘900 è Emilio Sereni a riscoprire con una grande ricerca storica questo epocale “passaggio” che, complice i grandi traffici commerciali ed essendo Napoli una città dove si forgiavano le mode, contribuì a costruire lo stereotipo spaghetti=Napoli e =Italia. Da “La lucerna de’ corteggiani” del Crisci, pubblicato nel 1634, si passa, nel 1765, al primo, vero ricettario napoletano: “Il cuoco galante” di Vincenzo Corrado, seminarista di umili origini, divenuto successivamente paggio, aio e, quindi, laico celestino. Nel libro, ricco di ricette create dall’autore, è contemplata, tuttavia, solo la cucina di corte e viene pressochè ignorato l’uso del pomodoro e del tutto il ragù. Compaiono, viceversa, varie pizze rustiche, la pastiera, la parmigiana di melanzane. E’ nella primaparte dell‘800, con il manuale di “Cucina teorico pratica” di don Ippolito Cavalcanti, che la gastronomia napoletana si fa teoria. E’ una cucina d’ ispirazione francese, di moda a quei tempi, ad uso di famiglie patrizie o dell’alta borghesia che non potevano permettersi un “Monzù”, come venivano chiamati, con evidente storpiatura dal francese, questi straordinari cuochi nostrani, prevalentemente operanti, fino a tempi recenti, in alcune famiglie nobili della città o nella corte borbonica, che, assimilano esperienze vere o di cucina d’oltralpe con la ricchezza di un territorio in grado di fornire prodotti superlativi grazie alla fertilità ed alla qualità della terra, questi “francofili” o francesi veri e propri hanno dato il più grosso contributo alla creazione della cucina napoletana odierna, con una geniale mescolanza di tradizioni autoctone con la grande cucina francese, talvolta inventando piatti …delux.Paradigmatico , nel Cavalcanti, è lo scritto in dialetto a sottolineare la differenza di classe, sulla cucina popolare. Nel 1884 Matilde Serao, nel suo “Ventre di Napoli” ci descrive, con colori forti e con ricchezza di particolari, l’alimentazione quotidiana del popolino, lo street food dell’epoca lo troviamo ancora oggi, con le magie nei fritti, nel piccolo pescato frijenn magnann, nelle origini della Pizza.
foto in Home Caponata del Monzù by chef Mimmo Alba